Comunicazione, Web design
elettronic design
Sfioriamo con gli occhi una pagina in carta di Fabriano di una edizione bodoniana, ma il nostro sguardo sfuggente è quello che quotidianamente scivola sulla pagina-schermo di un computer, dove il testo si manifesta dentro la virtualità di una superficie fluida. Andiamo a rivedere la storia dei caratteri di tipografia, ma mentre osserviamo la flessuosità del Garamond Monotype, lo vediamo con lo sguardo leggero di chi passa quotidianamente per i font delle scritture digitali. Osserviamo gli ampi margini di pagina dell’Eneide di Virgilio stampata da Francesco Griffo nel 1501, ma lo facciamo con gli occhi di chi è abituato a scorrere gli angusti confini di una pagina web.
Il nostro punto di vista cambia la nostra cultura e la nostra abitudine percettiva, fino al rischio della deformazione. Come Gorge Landow, studioso dell’ipertesto, quando vedeva l’ingegnere americano Vannevar Bush, anticipatore dell’ipertesto elettronico e inventore del memex, “sostituire i metodi stabili ed essenzialmente lineari che avevano prodotto i trionfi del capitalismo e dell’industrializzazione con quelle che in fondo sono macchine poetiche che funzionano secondo l’analogia e l’associazione, macchine che catturano e che incoraggiano la vivacità anarchica dell’immaginazione umana…”
Chi lavora a cavallo tra due ere, si fa carico della transizione e si misura con lo sdoppiamento percettivo di fenomeni troppo vicini e di altri troppo lontani; rischia l’eccesso interpretativo e deve dotarsi di una cultura del progetto in grado di controllare queste distanze. Non possiamo prescindere dal mondo “prima della rivoluzione”, dalla prospettiva gutenberghiana, la galassia da cui veniamo per storia personale o per tradizione. Ma è cambiato via via il paradigma del progetto di comunicazione: e c’è chi ha raccolto tutto il bagaglio di memorie e di culture precedenti; c’è chi le ha riviste, vagliate, selezionate e reinterpretate su un nuovo piano; chi, infine, se le è scrollate di dosso. Sono due strategie diverse per affrontare l’innovazione. Da una parte chi sostiene una piena continuità, quasi che il legame forte con il passato prossimo e remoto sia una caccia alle invarianti, una ricerca di conferme a un tutto che preesisteva. Così, ad esempio, l’ipertesto viene visto come una forma di organizzazione del sapere e del pensiero scritto già ampiamente praticata in tutte le forme testuali: quando l’intertestualità, il riferimento e il collegamento con altri testi mancava solo di un automatismo meccanico che lo rendesse più efficiente. Sottolineare gli effetti di continuità può avere come obiettivo la difesa di un patrimonio acquisito, il riconoscimento della radice profonda delle innovazioni. Ma il “continuismo”, cioè la continuità teorizzata e vissuta come prevalente, ottiene l’effetto di sminuire la portata di un evento, di negare un salto, uno strappo, talvolta lacerante, presente in questi passaggi. Il continuismo talvolta coincide con una posizione di origine corporativa, di arroccamento a difesa di competenze, sul piano dei saperi o dell’operatività. Al contrario, anche l’esasperare gli elementi di discontinuità non è di aiuto. E’ come vivere una rivoluzione che cancella ogni atto precedente, perché sposta in un mondo “altro” dove tutto è assolutamente diverso e toglie qualunque riferimento utile per procedere in avanti.
L’innovazione è incrocio di continuità e discontinuità. I “formati di transizione” ne sono la manifestazione visibile; come pure gli artefatti ibridi, dove questa mescolanza si fa struttura comunicativa. Nella dialettica tra continuità e discontinuità si crea un nuovo punto di vista rispetto al passato: qui può crescere anche la consapevolezza per gli artefatti della comunicazione gutenberghiana. Questa ricomprensione dei meccanismi che governano la comunicazione grafica tradizionale consente una piena progettazione anche dei sistemi a supporto cartaceo, e sul piano più generale, una maturità teorica e progettuale dell’intero design della comunicazione.
Pensiamo ad esempio a questioni emerse in modo esplicito solo grazie all’innovazione tecnologica della comunicazione: chi ha sperimentato i temi dell’usabilità, dell’ipertestualità, dell’interazione, li riconosce come nodi nascosti nelle pieghe del progetto sui formati tradizionali, e come tali li affronta.
Quello che chiamiamo e-design, è dunque in realtà proprio questo. Assumere tutti gli elementi di continuità e di discontinuità nel design della comunicazione, e-design è, allora, innovazione di linguaggi e di formati per il progetto in rete, è anche il nuovo paradigma del progetto per tutta la comunicazione.
Più che la tecnologia in sé, che dà vita ai nuovi media ma che può invecchiare rapidamente, ci interessano gli effetti che la ricaduta produce a tutto campo. Come le culture dell’era della stampa, che andarono ben al di là del libro e trasformarono il modo di vedere il mondo.
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